Fabbrica del Vapore. È stato promosso – da Milano in un incontro con la nuova composizione sociale milanese al lavoro nell’innovazione diffusa sostanziata dalla denominazione glamour e british: startup, coworking, fab lab e impresa sociale (l’unica denominazione nostrana) che fanno sintesi nella sharing economy. Luca De Biase, animatore di Nova del Sole 24 Ore, nel suo intervento ha provocatoriamente affermato che «è finita l’epoca dello storytelling, occorre tornare alla storia». Se lo dice lui, che con Nova è stato lo storyteller degli innovatori diffusi, da quando la new economy si è fatta “comunità di pratiche” nella metamorfosi del fare impresa e comunicazione, bisogna riflettere e cercare nei miei microcosmi il senso di questa discontinuità. Lo storytelling è l’atto del narrare, disciplina che usa i principi della retorica e della narratologia. Nel caso degli innovatori diffusi, soprattutto giovanili è fatta community e realtà aumentata nella rete. E stato un modo radicale e altro di rendere visibili i tanti soggetti invisibili per una società, un’economia e una politica ancora ferma al paradigma capitale-lavoro e Stato in mezzo nell’epoca dei flussi, della società circolare e della condivisione. Le internet company e il capitalismo delle reti hanno praticato la retorica dello storytelling management per promuovere e posizionare prodotti e idee. Basti pensare alla potente retorica di Google, Fb, Amazon, sino a Uber e AirB&B, che muta antropologie, economie e il fare società. La storia rimanda alle lunghe derive, al racconto interpretativo e interrogante, alle biografie e alle genealogie, più che alla narrazione del presente nell’accelerazione e nella velocità della rete. Lo storytelling, nelle due polarità, quella degli smanettoni che si rendono visibili e fanno community e quella del management che promuove e vendono i loro prodotti, sincreticamente si ritrovano nella sharing economy che viene avanti. Qui la parola d’ordine è condividere. La storia fa riemergere carsicamente una parola antica, rida attualità all’inattualità del fare comunità. Bologna, Auditorium Opifìcio Fondazione Golinelli. Seminario di formazione e riflessione con gli assistenti sociali, gli educatori e i dirigenti del Comune di Bologna che si occupano delle emergenze sociali sul tema dello sviluppo di comunità. E organizzato dall’Iress (Istituto Regionale Emilia Romagna Servizi Sociali) animato da Marisa Ancone Ili e Rossella Piccinini con Flavia Franzoni e Graziella Giovannini, storiche presenze nel comitato scientifico. Si parte dalla storia, Adriano Olivetti e gli operatori di comunità, Danilo Dolci a Partinico e le lotte della comunità per l’acqua. Si arriva alle tracce di comunità della Terza Italia dei distretti, delle economie locali di Arnaldo Bagnasco, Giuseppe De Rita e di Romano Prodi, per precipitare in sei quartieri di Bologna che si fa area metropolitana. Nessuna nostalgia per ciò che non è più, si parte dalla storia dello sviluppo di comunità per ragionare della comunità che viene, nella città che si fa smartcity, nodo di reti, e storico punto di riferimento per le politiche di welfare, anche queste in metamorfosi nella scarsità dei trasferimenti pubblici. Occorre condividere, ripartire dal basso, dalla metamorfosi dei servizi, nelle comunità locali guardando allo storytelling della smart city che viene avanti. Che non sarà se non guardando alla storia di CasaZanardi, mitico sindaco di Bologna che ha lasciato una casa per il pane e il pasto caldo degli ultimi. Oggi trasformata in un progetto di emporio solidale che siinterfacciaconipermercati e Ipercoop recuperando la memoria del cooperare. O il mettersi in mezzo degli assistenti sociali e degli educatori tra strategie del Comune eretidelle parrocchie rivitalizzando il tessuto della solidarietà, cosi promuovendo progetti come Re-Agisco per disoccupati verso ¡50 anni espulsi dalla velocità dei cambiamenti ma vitali e utili portatori di saperi ed esperienze. Ma soprattutto, a proposito di condivisione, si promuovono nella città che viene patti di collaborazione tra cittadini e Comune per la manutenzione e l’uso di spazi pubblici, parchi e giardini, e per l’arredo urbano, tenendo assieme cura e bellezza che non fa male quando si abita. Si fa patto anche per il riuso di edifici pubblici nei quartieri e si fa patto sui temi che fanno paura alle famiglie in difficoltà per affrontare il tema dei giovani adolescenti a rischio di devianza e disagio, sino a quello della sicurezza. Il tema è lo sviluppo della comunità che viene avanti per l’inclusione nella città che cambia. Ma il tutto non rinserrandosi, ma m rapporto con l’innovazione del fare comunità per fare brand di quartiere, innovando racconto e narrazione del margine guardando alla centralità del welfare culturale: il teatro, la musica, gli smanettoni, i creativi, e le biblioteche di quartiere si trasformano in luoghi dello storytelling per mangiare il centro, permettersi in circolo nella smart city. Questi due microcosmi che stanno in uno inducono a dire, guardando la storia, che anche le città hanno una memoria sociale in metamorfosi. Milano è la città anseatica ove, più che altrove, innovazione e metamorfosi dei modi del produrre e del commerciare, si direbbe oggi mettere in rete, sono visibili. Bologna è da sempre città crocevia sociale e culturale delle due Italie, di quella al di là dall’Appennino è stat storicamente un laboratorio del welfare municipale. Se vogliamo andare oltre la retorica dello storytelling, delle smart city, occorre guardare alle lunghe derive nell’epoca della conoscenza globale in rete, soprattutto a base urbana. Occorre scomporre e ricomporre la parola chiave innovazione. Serve un racconto non subalterno allo storytelling del management degli innovatori dall’alto, ma guardare alle città, anche alle società locali, ai loro progetti che stanno disegnando una via più situata nelle lunghe derive dei nostri modelli sociali. Tenere assieme lo storytelling, le community degli smanettoni che fanno startup, co-working e fab lab e storia delle città significa capire che senza l’accompagnamento e l’inclusione dei soggetti sociali che fanno social city, non si fa smart city.