
Da tempo vado ripetendo che la grande crisi si configura come un complesso processo di metamorfosi che rimette in gioco le strutture fondamentali del nostro vivere in comune. Andando per territori appare sempre più evidente come la questione del “senso” di quello che si è e di quello che si fa si intrecci con quella dell’”utile” economico e sociale. I soggetti sociali, persone e collettività, sono chiamate, per evocare un adagio dell’esistenzialismo novecentesco, a dare un’essenza all’esistenza contingente e da qui a stabilire obiettivi personali e finalità collettive. Andando nell’orizzontalità dei territori, nei contesti locali, questa ricerca, talvolta condotta tra le macerie dell’apocalissi culturale di mondi improvvisamente tramontati, è più vitale e più consistente dello storytelling della speranza cui guardiamo spesso con atteggiamento indulgente. Spesso è un’orizzontalità rasoterra, che parte dalla terra (madre), dall’antica relazione tra terra e uomo, per farsi ragnatela del valore intorno ad un “consumattore” che cerca nei processi e negli oggetti significati e realizzazione di desideri in sintonia e in sincronia con i tempi di un capitalismo che prova ad incorporare il senso del limite. Emblematica, da questo punto di vista, la storia del Progetto ARCA (Agricoltura per la Rigenerazione Controllata dell’Ambiente) promosso da imprese come Loccioni e Fileni Simar e dal profetico Bruno Garbini in alcune valli delle Marche centrali. E’ un progetto di rigenerazione che affonda le proprie radici negli ultimi decenni del ‘900, quando ancora termini quali “rigenerazione”, “riuso”, “riciclo”, appartenevano al lessico di avanguardie culturali ammantate da respiro utopico e visioni millenaristiche del destino ambientale di un mondo ancora tutto incentrato sui pilastri della crescita quantitativa, del progresso illimitato. Quello incentrato sulla Vallesina (Valli dell’Esino, del Musone e del Misa-Nevola), come tanta parte del Centro Italia, è un territorio intriso di spiritualità profondamente plasmato dall’uomo, secondo principi che non ne hanno mai stravolto le caratteristiche naturali originarie. In questo solco si sposano senso e utile di una realtà come la Loccioni, leader nella sensoristica cresciuta nel distretto fabrianese del bianco, che intende fare del progetto un campo di sperimentazione delle tecnologie applicate alla memoria della terra, e di Fileni Simar, leader della produzione bio di carni bianche e rosse, che intende favorire il pieno sviluppo di filiere sostenibili, accompagnati in questo dalla visione di Garbini. Queste tre storie hanno una caratteristica: sono storie di evoluzione di una comunità locale e di un saper fare locale, che oggi si pone un problema tanto di crescita imprenditoriale, quanto di missione imprenditoriale. Le tre storie di impresa e di vita potrebbero essere raccontate come altrettante storie di eccellenza, un’eccellenza nella visione che ha anticipato i tempi del biologico, del rapporto con la natura, con il consumatore. Ma il discorso non si limita al posizionamento rispetto alla commercializzazione, all’innovazione di prodotto. Quando Enrico Loccioni afferma “bisogna sposare la cultura del metalmezzadro con la cultura del monaco, del convento e l’economia del convento, bisogna tornare alla terra”, sembra una regressione, ma è qui che egli recupera una visione comunitaria intrisa di innovazione di olivettiana memoria. Non a caso l’epicentro di questa smart valley sarà l’Abbazia di Sant’Urbano, recuperata e ristrutturata come luogo di incontro e di progettazione con le comunità locali, riattualizzando l’antico adagio ora (senso) et labora (utile). La cosa è molto affascinante, perché si tratta di un messaggio moderno che dice “per andare avanti bisogna tornare”, che è poi il ragionamento sullo sviluppo sostenibile. E’ quindi evidente che sia in corso un’evoluzione culturale dei distretti manifatturieri che converge oggi sul terreno di un rinnovamento del tessuto economico sempre più attento a valorizzare beni comuni come il paesaggio, a sua volta composto da elementi inscindibili che lo fanno vivere (acqua, aria, terra, bosco, etc.), il tutto a comporre una tendenza coerente a progettare collettivamente distretti della grande bellezza. Con sperimentazioni dalle quali appare sempre più evidente che non c’è “cura” dei beni comuni, se questa cura non viene tradotta nel linguaggio della comunità, diventando beni comuni affidati alla responsabilità delle comunità locali. Saltando in tutt’altro universo simbolico, ancorché territorialmente piuttosto prossimo, la convergenza sul parametro del “senso del limite” attraversa anche il mitico distretto del piacere sull’adriatico romagnolo. Qui, dove, come dice l’altrettanto mitico cacciatore di tendenze Pier Pierucci (Aquafan-Costa Edutainment, Oltremare, Bio’s e tanto altro) “il divertimento è una cosa seria” e l’attenzione all’evoluzione delle antropologie del desiderio è maniacale, la cultura del “bio” e della sostenibilità diventa business fantasmagorico, tenendo assieme l’avant pop delle “cinture nere vegan” e l’apparentemente strampalato massimalismo etico del “tutti devono avere il diritto al bio ma tutti hanno il dovere di stare bene”. Un’affermazione programmatica che, per inciso, la dice lunga sulla metamorfosi di ciò che fino a poco tempo fa chiamavamo “trasgressione” nell’epoca della crisi del politicamente corretto. Partendo da retroterra culturali di senso molto diversi, Progetto Arca e le nuove tendenze della riviera romagnola convergono sul paradigma della sostenibilità, facendo sintesi creativa di un discorso che si snoda dalla spiritualità dolce dei conventi e delle abbazie, facendo leva sullo scheletro contadino della mezzadria, capitalizzando la bellezza dei paesaggi antropici, per fare laboratorio di nuove forme di economia manifatturiera, di turismi, di industrie culturali, a delineare distretti culturali evoluti e laboratori del buon vivere in questo pezzo di Italia di Mezzo alla ricerca laboriosa di una nuova sintesi tra senso e utile.