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Dall’impresa 4.0 alle capabilities sociali e dei territori

di Aldo Bonomi / sabato, 21 aprile 2018 / Pubblicato in News

Tutto bene dunque? Siamo istradati lunga la giusta via? La vivace discussione che ha preso forma nei workshop territoriali, a ben vedere, esprime una domanda ineludibile: la necessità di inquadrare le trasformazioni in corso nella cornice di un possibile disegno insieme produttivo e societario che ad oggi si fatica a delineare. In altre parole, Impresa 4.0 è al tempo stesso molto importante e troppo poco.

Forse l’hype-cycle “4.0” è entrato nella fase discendente; nel caso, sarebbe un bene. Quanto più si distinguerà tra l’iniziativa strategica Impresa 4.0 e il materiale affermarsi, dapprima tra le pieghe della grande crisi, poi al traino della sua uscita (con una ripresa oggi più solida del 2016), di un nuovo “assemblaggio” produttivo, economico e sociale, tanto più l’analisi, anche sui temi più battuti degli ultimi anni (come il futuro del lavoro) ne trarrà beneficio. Stiamo entrando in una fase nuova, in cui anche in Italia i temi del cambiamento connessi alla trasformazione digitale iniziano ad acquisire rilevanza. E’ questa, ampliando lo sguardo, la questione del quarto livello dell’analisi, che non ha per oggetto la ripartenza del Pil o l’innovazione imprenditoriale, ma il modo in cui questi fatti economici si incastrano nelle trasformazioni sociali e domandano un allineamento dei diversi sistemi (formazione, welfare, relazioni industriali, sfera culturale e dei valori, regolazione politica) coerente con gli obiettivi della redistribuzione dei benefici e dell’inclusione dei territori.

Siamo in presenza di un processo di apprendimento collettivo, basato più su schemi try and error e forme incrementali che su innovazioni radicali. I territori hanno ripreso a ruminare il cambiamento, anche se l’annunciata  quarta rivoluzione industriale non sembra alle porte. I concetti che animano la discussione a ridosso della trasformazione digitale appaiono infatti ancora immersi in una visione di industrialità debitrice del Novecento, agganciata com’è ai perni dell’efficienza e della produttività temperati dalla flessibilità. Postfordista, certamente, ma novecentesca. Tuttavia le innovazioni minute e più consistenti che puntellano i territori stanno disegnando i contorni di un’Italia industriale nuova e “oltre la crisi”, in grado per ora di distribuire opportunità e forse anche benessere alle componenti della società incluse o agganciate a questi processi, ma non (ancora?) di farsi carico dell’intero sistema; nuovi o ridisegnati dualismi, fratture sociali e territoriali, vite che divergono, sono ad un tempo lascito della crisi e indizi di processi nuovi che domandano una nuova “quadratura del cerchio” tra efficienza economica, coesione sociale, partecipazione democratica. E’ questa, lasciata alle spalle la fase più acuta della crisi e ripresa l’economia mondiale, il grande tema di dibattito, a lato e come necessario complemento di Impresa 4.0. Di ciò, a ben vedere, si è discusso nei workshop territoriali, al di là delle chiavi di accesso di volta in volta utilizzate che, in qualche caso, possono apparire distanti dai temi del cambiamento tecnologico. Discutere di nuovo welfare e impresa sociale, come si è fatto nel workshop di Napoli, potrebbe apparire una scelta originale e fuori target; lo è, se trasformazione digitale significa aneddotica feticistica dell’innovazione, cessa di esserlo quando la si assuma come motore di cambiamento delle forme di produzione e della vita quotidiana.

Rinviamo alla lettura dei resoconti dei workshop per l’approfondimento dei contenuti emersi da questo dibattito itinerante. In questa introduzione ci limitiamo a sottolineare alcuni argomenti trasversali che hanno fatto da quinta alle diverse tappe e che, ci pare, debbano essere acquisiti soprattutto per le suggestioni che incorporano.

Prima questione, la trasformazione digitale è un processo che non si esaurisce dentro le mura delle imprese, poiché scardina sia la concezione fordista dell’organizzazione sia il concetto porteriano di catena del valore, che assume come punto di vista l’impresa e descrive i processi generativi di valore, appunto, come una sequenza lineare di operazioni e di attività di supporto, a prescindere dalla forma verticalmente integrata ovvero distribuita in reti combinatorie di mercato e gerarchia dell’organizzazione medesima. Questo modello appare sempre meno in grado di descrivere le forme di creazione del valore che assumono il punto di vista non dell’impresa ma dell’utente-cliente finale. Le attività di supporto (infrastrutture, sviluppo tecnologico, gestione della conoscenza, approvvigionamento di informazioni) divengono qui snodi strategici, laddove la connessione a rete di flussi di beni, informazioni, relazioni e sinergie tra attori differenti rende più appropriate altre immagini del vantaggio competitivo, che qui definiamo come “ragnatela del valore”. In altre parole, un sistema in cui molteplicità e circolarità dei processi cooperanti nella produzione di valore assumono l’obiettivo della “cattura” del cliente, a sua volta incluso nel processo sia come produttore non intenzionale di informazioni sia come soggetto partecipe, in un processo espansivo che assume come orizzonte dell’agire economico i territori della vita quotidiana e quelli dell’immaginario, delle informazioni, della conoscenza globale in rete.

Tuttavia, nella trasformazione digitale molti manager e imprenditori ragionano tuttora in termini di catena del valore e anzi intravedono nelle nuove tecnologie un mezzo per integrare e accorciare le sequenze che la contraddistinguono. Ciò non può stupire. Nella narrazione di Impresa 4.0 convivono un’anima neo-industriale, che ha il suo nucleo nella problematica ricerca di un ottimo tra efficienza e personalizzazione, e un’anima disruptive, in cui prevale l’opzione creatrice di nuove relazioni e la capacità di aggregare le forme della vita sociale (la “cittadinanza”) in qualità di forza produttiva. Proprio la concezione della cittadinanza come forza produttiva, per citare un imprenditore marchigiano, fornisce i termini della posta in palio:  l’orizzonte ultimo della “quarta rivoluzione”, infatti, non è la digitalizzazione o l’inventario delle tecnologie abilitanti riproposto da ogni contributo sul tema, ma la messa in produzione della vita sociale, sia come cattura nei processi generativi di valore, sia come intelligenza collettiva in grado di sviluppare soluzioni e utilità al centro della nuova economia. Anche per queste ragioni è emerso in questi anni una sorta di paradigma parallelo, che alcuni hanno già battezzato (nuovo hype?) Society 5.0, che pone al centro gli impatti sociali e ambientali dell’attività economica, sempre più concettualizzata intorno a componenti antropogenetiche, di produzioni “per l’uomo” e soluzioni per la vita collettiva, che si presenta come alternativo a Industry 4.0 laddove ne è piuttosto il necessario complemento.

Si propongono dunque nel dibattito due vie dell’innovazione che in fondo costituiscono da sempre i pilastri, in apparenza ostili ma nel profondo intimamente connessi e mutuamente funzionali, del lavoro che innova, e che richiede libertà, cooperazione, sviluppo delle facoltà personali e collettive (in una parola, intelligenza sociale) e dei processi di scala, nell’offerta e nella domanda, delle logiche labour-saving, della standardizzazione – che non costituiscono un residuo taylorista, basti vedere il funzionamento delle piattaforme digitali, degli stessi social network o di imprese come Amazon, anche al netto della polemica sui braccialetti ai dipendenti.

E’ dentro questa duplicità che occorre scavare per rintracciare le specificità dei territori o, per riprendere un termine abusato, la “via italiana” a Impresa 4.0. Che non è la scrittura ex novo, su una pagina bianca, di un “modello” astrattamente dotato di coerenza o appeal, ma la capacità di ridisegnare la nostra vicenda sociale ed economica a partire dai grumi di cultura materiale sottostanti ai territori produttivi. Tra lavoro che innova e grandi economie di scala, ci siamo sempre contraddistinti per capacità di muoverci con delicato equilibrio sul primo versante, traendo forza dalle abilità e dai saperi incorporati nelle mille comunità operose che compongono il nostro mosaico socio produttivo. A maggior ragione oggi, questa la scommessa, il nostro sistema non ha molto bisogno di “api di vetro”, gli efficientissimi automi del romanzo di Junger, né del loro corrispettivo vivente, di volponiane “mosche” digitali. Ha bisogno di mettere in risonanza conoscenza sociale e innovazione in bilico tra impresa e società, tra territorio e globalità, per trarre potenza dalla trasformazione digitale, ma anche per distribuirla.

E’ in questa prospettiva che occorre recuperare, quasi come figure mitopoietiche, la lezione  delle grandi personalità, da Olivetti agli intellettuali come Sebregondi, Sylos Labini, Fofi, Volponi, Siniscalchi che, interpretando la discontinuità del Paese che da agricolo diveniva potenza industriale, erano riusciti a dare senso e significato ad una possibile speranza. La programmazione all’italiana di cui oggi si sente nostalgia nacque da quella coscienza critica, che iniziò a sviluppare programmazione scolastica, industriale, territoriale e sociale. Anche il primo postfordismo, quello dei distretti e delle piccole imprese, ebbe la sua intellettualità di riferimento in figure come Beccattini, De Rita, Bagnasco, Rullani e i altri che hanno raccontato quel modello produttivo e il capitalismo molecolare senza avvalorare mai la nefasta contrapposizione tra piccole e grandi imprese che ancora oggi confonde il dibattito. Qui si pone, con tutta l’umiltà del caso, anche il compito dell’Associazione Transita. Anche la nuova fase, il capitalismo basato sulla conoscenza globale in rete, sempre più istruito e infrastrutturato dalle tecnologie digitali, richiede analisi alta e racconto dal basso. E richiede nuovi intellettuali di riferimento, senza nomi e cognomi e senza titolo perché generalisti. Un ceto che esiste ma che è difficile coagulare, che rispecchia l’economia del sapere e non ha un profilo professionale specifico. E’ semmai, riprendendo una suggestione marxiana, un frammento di general intellect che comincia a porsi il problema della metamorfosi guardando alla società che viene. E’ importante tenerlo assieme e dotarlo di reti, anche leggere e analogiche, in grado di connetterlo (una connessione che ormai la politica non è più in grado di fare).

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