Pochi settori fissano un’immagine delle transizioni di lungo periodo del capitalismo italiano più dell’automotive, come emerge anche dal convegno “L’Emilia dei motori” organizzato nelle scorse settimane da Confindustria Emilia. A dispetto delle previsioni sul declino ineluttabile del bene icona del ‘900, l’industria dell’auto è in ripresa nel mondo e dal 2014 anche in Europa, in attesa dell’auto a guida autonoma che ridisegnerà mobilità e usi sociali delle quattro ruote. Anche se in Italia se ne producono ormai poche (663mila nel 2015 su poco più di un milione di veicoli), dal 2015 la produzione e l’export sono in crescita anche da noi.
I numeri non dicono però dei cambiamenti qualitativi. Nel paese ormai si producono auto a firma italiana di gruppi internazionali. Non più il radicamento dei produttori, ma la qualità delle conoscenze è precondizione dell’insediamento o del rilancio dei siti di produzione. Sempre meno, poi, produciamo compact o piccole berline, sempre più suv, auto di lusso e sportive, dove conoscenza, tecnologia, complessità, dialogo con il cliente hanno una parte decisiva. Sono preistoria i tempi in cui Fiat era leader di “prima motorizzazione” o giocava in proprio la scommessa della world car. Auto, inoltre, è sempre più industria dei componenti. Per campi mobilitati (materiali, ICT, automazione, alimentazione, ecc.) l’automotive coinvolge uno spettro sempre più ampio di specializzazioni organizzate secondo logiche di filiera. Termine, quest’ultimo, che soprattutto qui evoca la compresenza tra schemi gerarchici e cooperativi: in alto i fornitori globali di sistemi, moduli e componenti specialistici, più sotto i subfornitori di parti a diverso contenuto di standardizzazione e personalizzazione. Trasversalmente, il terziario di ingegneria e progetto che dà contenuti, processi, integrazione al ciclo. L’Osservatorio delle CCIAA di Torino e Modena stima in quasi 2.000 imprese e 200mila addetti la componentistica in senso stretto. La concentrazione maggiore è ovviamente il Piemonte (oltre 700 unità e 80mila addetti), in virtù dei lasciti, virtuosi e problematici, della sua storia. Anche Torino è oltre il passato fordista e persegue una specializzazione nella ricerca, nell’ingegneria e nei beni intermedi. Credo però che per una rappresentazione emblematica della dimensione “intermedia”, quella nella quale confluiscono e si ibridano le due vie dello sviluppo italiano, quella del capitalismo metropolitano della produzione di massa e quella della specializzazione flessibile dell’industrializzazione diffusa, oggi ossatura di ciò che resta del capitalismo italiano, occorra guardare soprattutto alla Motor Valley emiliana. Partendo dalla specializzazione distintiva nella velocità il cluster emiliano, nello stabilimento a cielo aperto della via Emilia mette in mostra nel cuore modenese Ferrari, Maserati, Alfa, Pagani e Cnh, a Parma la Dallara e a Bologna Ducati, Lamborghini, Toro Rosso e VRM. Stabilimenti-atelier per produzioni non delocalizzabili, completati da duecento componentisti, che impiegano 13mila addetti nell’area vasta, tra cui diverse eccellenze, come Vaccari e Bosi che produce telai su misura per Ferrari, ma anche per i modelli Alfa Romeo concepiti nel polo di sviluppo che FCA ha scelto d’insediare a Modena. O come l’Hpe-Coxa, 225 dipendenti di cui 167 ingegneri, che sviluppa ingegneria e tecnologia per l’auto, per l’aerospazio e la nautica. Qui, partendo dalla nicchia del motor sport, ci si espande a tutto il segmento del lusso, facendo leva sulle abilità realizzative e sull’orientamento a soluzioni innovative intrinseca alla specializzazione storica. Con l’atterraggio del Suv Lamborghini e del centro sviluppo Alfa, il distretto emiliano può ambire ad affiancare i grandi cluster italiani (Torino) ed europei (Birmingham, Stoccarda), dai quali, per dimensioni, articolazione, “completezza” è ancora lontano. Non è, nuovamente, ai numeri ma alla qualità dei processi che occorre tuttavia guardare. Il mix di impianti finali per prodotti premium, componentisti di livello, piccoli e medi artigiani ad alta specializzazione, disegna i contorni di un cosmo produttivo che può crescere per diversificazione, mantenendo i vantaggi accumulati nella nicchia di partenza.
Nel suo essere emblematico di ciò che chiamo capitalismo intermedio, che qui si presenta al più alto livello, il distretto automotive ne riflette anche i problemi. Temi di cui discorriamo da decenni, ma che in questo caso oltre ad istruire convegni spingono la ricerca di soluzioni. Tra i principali è il passaggio dalle conoscenze tacite ai saperi formali. I segreti dei motori “erano nell’aria” ma oggi le imprese domandano ingegneri. Da qui, su impulso degli imprenditori e sotto la regia regionale, la nascita della Motorvehicle University of Emilia-Romagna, con la partnership di quattro atenei (Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia) e il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Come ovunque, la filiera è polarizzata tra un nucleo di eccellenti, avviato sulla via dell’alta innovazione e dell’internazionalità, e una base frammentata, di aziende indipendenti in grado di rapportarsi ai capi filiera per produzioni di serie limitata. Questo tessuto costituisce un valore riconosciuto dalle stesse case automobilistiche. E’ dunque l’innalzamento complessivo delle conoscenze, anche attraverso forme di crescita guidata e scambi collaborativi, la priorità degli anni a venire, se c’è bisogno di “una filiera in grado di supportarci nelle fasi di progettazione, simulazione e non solo alla produzione”, per citare Maurizio Reggiani di Lamborghini.
Beni collettivi e crescita organizzata di filiera sono, in fondo, un frattale del programma industriale del paese; quello “intermedio” rimane un capitalismo di territorio, come ricorda Andrea Pontremoli di Dallara quando afferma che “la competitività di una singola azienda si lega a filo doppio con la competitività del territorio”. Il salto definitivo, qui, appare alla portata, anche perché le parti in gioco dimostrano nella pratica di saper cooperare, traendo vantaggio anche da una Regione che la regia la fa seriamente.