Due anni fa, nel pieno svolgersi del dibattito su Industry 4.0 che avrebbe condotto al Piano Calenda e all’architettura di politica industriale collegato, proponemmo una riflessione articolata su quattro livelli di analisi, corrispondenti ad altrettanti piani d’azione, tutti necessari affinché le idee circolanti sulla trasformazione digitale potessero convergere su una prospettiva di nuova crescita inclusiva, qualificata e sostenibile, coerente con i tratti distintivi del capitalismo italiano.
Al primo di questi livelli ponevamo le imprese e le tecnologie abilitanti, dunque la necessità di un’onda sufficientemente ampia di investimenti in innovazione, possibilmente non orientata alla mera sostituzione di capitale fisso e in grado di combinare investimenti labour-saving con la capacità di sviluppare nuovi prodotti. Al secondo si situava l’azione dei corpi intermedi, intesi in un’accezione larga, includente oltre al tessuto più resistente della rappresentanza, un possibilmente agile e innovativo ceto di problem solver, detentori di conoscenze organizzative, manageriali, tecnologiche necessarie per accompagnare le imprese nella trasformazione digitale. Al terzo livello, più importante perché decisivo per l’operatività di quelli sottostanti, ponevamo la produzione di beni collettivi e le risorse regolative di stimolo, sostegno, incentivo agli investimenti in innovazione. Proponevamo infine di portare la nostra riflessione su un quarto livello, che in realtà comprendeva tutti gli altri, che riguardava – diremmo con linguaggio sociologico – il problema dell’integrazione sistemica; la necessità, in altre parole, di favorire un allineamento virtuoso tra sfera della produzione, istituzioni regolative, ambiti della vita sociale e della riproduzione individuale e collettiva. Si poneva fin da subito, dunque, l’esigenza di una riflessione sulla digitalizzazione dei processi produttivi visti non come fatti tecnici, ma come processi che investono l’intero campo dei rapporti sociali. In termini ancora più netti, il “modello” di capitalismo emergente dalle trasformazioni in corso. A distanza di un anno e mezzo, almeno nei livelli inferiori e fino al terzo (la regolazione), molto sembra essersi messo in moto e certamente ci troviamo oggi in una situazione che legittima uno sguardo più ottimista sul futuro.
Anzitutto, i segnali di ripartenza economica si sono infittiti e nel corso del 2017 hanno assunto i contorni di una moderata crescita. Pure restando al riparo dagli eccessivi entusiasmi che hanno accompagnato la revisione periodica, quasi sempre al rialzo, delle stime relative ai principali indicatori economici, il ritorno della crescita del prodotto interno lordo e della produzione industriale su livelli più sostenuti, ancorché distanti da quelli ormai lontani della fase pre-crisi, inducono ragionevoli aspettative di un più complessivo recupero. Nel 2017, inoltre, anche le voci più stagnanti dei conti nazionali nel periodo precedente, hanno emesso segnali positivi. Anche se con una dinamica debole potere d’acquisto e consumi delle famiglie hanno mostrato una qualche tendenza al rialzo. L’occupazione, in termini reali (ore lavorate) ancora lontana dai livelli pre-crisi, in valore assoluto (numero degli occupati) ha riguadagnato quasi tutte le perdite accumulate tra il 2008 e il 2014, per quanto una parte importante dello stock occupazionale sia composto da contratti a termine con una frammentazione che ha portato l’incidenza del part-time su livelli finora sconosciuti. Infine, ed è la voce che in questa sede ha probabilmente maggiore importanza, gli investimenti delle imprese sono ripartiti, sia pure a velocità ridotta. Si ribadisce, numeri interlocutori, che soprattutto nel confronto europeo non appaiono entusiasmanti (per quasi tutte le voci, nei confronti dei principali paesi di confronto, l’Italia evidenza valori più contenuti e una dinamica meno sostenuta), ma che indubbiamente possono essere acquisiti come marcatori di un cambio di fase. Più nello specifico, ripercorrendo i diversi livelli del discorso prima elencati, si può affermare che il percorso di trasformazione digitale delle imprese, che due anni prima descrivevamo come asfittico, sia in qualche modo decollato, grazie agli stimoli previsti dal piano Industria 4.0 e certamente anche al migliorato clima di fiducia.
Per quanto attiene al primo livello, gli investimenti tecnologici delle imprese, i dati comunicati dal MISE a fine 2017 evidenziano un significativo incremento della spesa in software, nei dispositivi Internet of Things, nel Cloud computing e nella Cyber-security (alcune delle tecnologie abilitanti previste dal piano), mentre le previsioni per l’anno in corso rivelano un rilevante incremento della spesa per attività formative interne alle imprese, effetto dell’inclusione delle corrispondenti spese tra le voci beneficiarie dei contributi previsti dal piano medesimo. L’impatto del super e dell’iper ammortamento, ma anche il credito d’imposta sulle spese destinate alla ricerca e sviluppo, secondo l’opinione degli imprenditori che hanno investito, è stato importante. I dati poco dicono sulla qualità degli investimenti sostenuti dagli incentivi e appaiono motivate le obiezioni di quanti sostengono che il piano non ha favorito, finora, una vera svolta verso le forme più evolute di innovazione digitale, quanto un processo di rinnovamento dei macchinari e degli impianti. Gli stessi dati rivelano inoltre forti differenze tra le imprese che hanno effettuato investimenti su basi dimensionali: per esemplificare, il 50% delle grandi imprese industriali ha effettuato investimenti in IoT, a fronte del 10% circa delle piccole. Occorre, nella valutazione degli strumenti, considerarne anche i limiti quantitativi e la natura processuale del percorso, suscettibile di aggiustamenti in itinere. Il Piano doveva riattivare gli investimenti, e questo bersaglio si può dire che sia stato centrato.
Anche il secondo livello ha tratto beneficio dal clima di rilancio degli investimenti, a partire dal riconoscimento del tessuto associativo imprenditoriale e della rete camerale in qualità di aggregatori, diffusori e facilitatori del trasferimento tecnologico e della cultura digitale presso la platea diffusa delle PMI (Punti Impresa e Innovation Hub). In attesa dell’entrata in funzione dei Competence Center, si può affermare che nonostante le perplessità suscitate da un conferimento di ruolo così diffuso e capillare, le rappresentanze economiche territoriali hanno l’opportunità di ritagliarsi un ruolo nell’accompagnamento dei processi di innovazione. Troppo poco per invertire la rotta di una crisi che ha radici profonde e cause lontane, abbastanza per rivitalizzare le componenti più vivaci e capaci di riconversione di questa popolazione organizzativa letteralmente devastata dalla crisi. In breve, il piano governativo Industria 4.0 (oggi Impresa 4.0) ha parzialmente colmato, con tutti i suoi limiti, un deficit di politica industriale che si trascinava da decenni e forse per questa ragione la gran parte degli osservatori ne ha valorizzato lo slancio proattivo, sorvolando sui limiti tecnici e forse anche strategici. Anche se le risorse stanziate, soprattutto per i centri che ambiscono a svolgere una funzione paragonabile a quella dei Fraunhofer tedeschi, sono eccessivamente limitate; anche se la struttura degli incentivi appare disegnata per premiare le imprese efficienti, dal momento che non si distribuiscono a fondo perduto ma attraverso moneta fiscale di cui può beneficiare solo chi realizza utili; resta l’innegabile merito di aver ridato slancio ad una dinamica progettuale e ad all’attivazione, talora anche entusiasta, di un ceto diffuso di consulenti, osservatori, attivisti dell’innovazione (e inevitabilmente di intermediari poco utili variamente interessati).