Operai e borghesi, le classi sociali tipiche del Novecento, ormai non ci sono più come ha documentato il Rapporto 2017 dell’ISTAT che ridisegna la composizione sociale del Paese. Eppure torna “l’inchiesta operaia”, non più lungo la catena di montaggio della grande fabbrica fordista, ma nella neofabbrica “finanziaria” delle banche e delle assicurazioni che mettono al lavoro i white collar dell’economia dei servizi.
A Milano, ove questa economia si fa neofabbrica più che altrove, la Fisac CGIL ha promosso un’inchiesta sulle trasformazioni del lavoro in banca, partendo dalla crisi del settore e dal cambiamento tecnologico. Lo shock finanziario del 2008, la drammatica selezione delle attività produttive, sub prime e titoli tossici della mala finanza, hanno spinto le banche nel vortice del mutamento dei business consolidati che hanno iniziato a girare a vuoto, inducendo ristrutturazioni, licenziamenti e cambiamenti di rotta.
In questa cornice il tema dell’innovazione ha conquistato il centro della scena e con essa la questione del lavoro. Intesa nella duplice accezione di occupazione, a fronte degli esuberi che interessano il settore, e del suo divenire digitale, intendendo con lavoro digitale non solo le attività svolte on line ma tutte quelle forme direttamente o indirettamente strutturate del nuovo adagio tecnologico. In prospettiva intervengono in quella organizzazione della ragnatela del valore per raggiungere e incorporare il cliente, di cui la ristrutturazione e la chiusura di tante agenzie di territorio di prossimità in nome della simultaneità, della connessione, ne è l’esempio più evidente. L’inchiesta portata avanti da un gruppo di delegati sindacali ha raggiunto più di 1000 lavoratori, ed aveva l’obiettivo di rafforzare elementi di conoscenza attraverso la più “operaista” delle pratiche attualizzate nelle neofabbriche finanziarie a Milano. Con la presunzione di cogliere la soggettività di una dimensione del lavoro ancora di massa al centro di processi di crisi e di innovazione che attraversano il sistema paese. Basti ricordare la questione bancaria con le sue crisi che attraversa il Nord Est e il Centro Italia dei distretti e della fabbrica diffusa. Analizzando i dati, ovviamente parziali, dell’inchiesta ci si trova in un punto di intersezione ideale per delineare alcune tendenze che rimandano agli effetti della cosiddetta digitalizzazione sui lavori e, a proposito del rapporto ISTAT, all’inoltrarsi nella scomposizione dei ceti medi, di cui i lavoratori del settore finanziario hanno rappresentato da sempre una frazione rilevante.
La percezione sociale nei confronti del digitale è mutata negli ultimi dieci anni. A lungo, le nuove macchine, e per riflesso il lavoro emergente, erano descritti intorno a due discorsi dominanti. Da una parte se ne esaltava il carattere decentrato e tendenzialmente orizzontale. Dall’altra il lavoro, inteso come nuova combinazione uomo-macchina, era descritto per i crescenti aspetti intellettivi, relazionali, di ricchezza, di gestione autonoma e creatività… Oggi queste visioni sono parzialmente entrate in crisi. L’ampliarsi di voci critiche, unitamente alle previsioni sull’impatto delle nuove tecnologie sul pilastro della cittadinanza basata sul lavoro, hanno contributo ad una visione meno unilaterale. Nella nostra inchiesta gli intimoriti sono più del 45%, anche se un buon 39% si mostra fiducioso. Prevale però l’ombra degli esuberi che copre le assunzioni di giovani millennials smanettoni da introdurre nel nuovo ciclo e un buon 30% si sente inadeguato alla turbolenza. Tant’è che ad una domanda sul sentire prevalente nella grande fabbrica milanese in metamorfosi appaiono rassegnazione e paura di perdita di ruolo e status per molti, ma anche una minoranza (15%) di arrabbiati. A proposito di mutamenti delle classi sociali. S’era mai visto un bancario “incazzato”? Eravamo più abituati alla rabbia operaia. Il che ci rimanda allo sfarinamento del ceto medio che è, da tempo, una delle grandi questioni della società italiana e di tutte le società a capitalismo maturo. Per giungere alla nostra inchiesta niente più del posto in banca nel nostro immaginario aveva incarnato la rappresentazione concreta dei ceti medi dipendenti. Questo mondo, oggi, è alla prese con una ritirata ordinata, quando va bene, e con la difesa selettiva delle proprie prerogative di reddito e status. Con il riferimento al concetto neutro di classe media, nonostante i colpi inferti dalla crisi al benessere delle famiglie sarebbe fuorviante evocare immagini di deragliamento generale. Le statistiche ci dicono più di una erosione che di una frana. Viceversa, per quanto attiene la dimensione soggettiva ,quel sentirsi medietà che ha guidato strategie di intere generazioni, è oggi stressato dalla contrazione di redditi e patrimoni, dal problematico trasferimento dello status alle generazioni entranti e dalla rottura dei contratti sociali che garantivano futuro. Il 69% di sente ancora classe media, anche se un 23% si sente già precipitare verso il basso. Di quel 69% però ben il 40% si sente avviato lungo la china di un declino inesorabile. D’altronde la rilevazione del reddito e delle retribuzioni, anche se rimangono mediamente ben retribuite, indica che per quasi la metà dei rispondenti che oscillano tra i 1800 e 2500 €, con una minoranza che percepisce compensi superiori fatti ancora dai mitici incentivi. Ma anche nella neofabbrica finanziaria appaiono i contratti a tempo determinato e una minoranza messa al lavoro con forme flessibili inferiori ai 1500 €. Per la funzione strategica che ricoprono nel sistema economico in transizione, le banche e i loro modelli organizzativi hanno una valenza eccedente il loro campo specifico. Impiegano direttamente decine di migliaia di persone mediamente detentrici di competenze qualificate. E’ su questo tipo di organizzazione che le nuove tecnologie promettono di esercitare un impatto maggiore in termini quantitativi e qualitativi. Per lungo tempo il lavoro finanziario ha rappresentato per definizione piena integrazione e relativo benessere. Diverse delle condizioni ci assicuravano reddito e senso si sono tuttavia affievolite o stanno venendo meno. E’ una questione che, rimandando ai mutamenti profondi della composizione sociale evidenziati dall’ISTAT, interroga città come Milano e l’economia dei servizi che viene avanti.